31 ene 2012

Mosca, 1931.



C'è anche la Cattedrale di Cristo Salvatore, con i giorni contati.

29 ene 2012

Era tutta una finzione. Il punto di Pierluigi Battista sullo stato comatoso del liberalismo nel nostro paese conferma una vecchia tesi di questo blog: i liberali italiani non esistono e chi si definisce tale in realtà non conosce il significato del termine. Dissipatasi la nebbia della confusione al sole tiepido ma in fondo confortante della crisi finanziaria, la folla si dirige sbandata verso l'unico totem che è sempre stata in grado di riconoscere: il dirigismo statale, nelle sue multiformi perversioni. Direi che i segnali, a saperli leggere, ci avvisavano da tempo. E' una malattia europea, non solo italiana, ma nel nostro paese assume come sempre connotazioni grottesche, da buoni navigatori incapaci di tenere dritto il timone per più di cinque minuti. La facezia del liberalismo di sinistra - laddove la sinistra è sempre stata sinonimo di socialismo, o peggio - non durerebbe il tempo di una pernacchia in un paese serio, con una autentica cultura liberale alle spalle e un minimo di senso del ridicolo di fronte. E invece, mentre il centrodestra politico riusciva nella sconcertante impresa di consegnare a nuove e vecchie generazioni un paese più aliberale di quello che aveva trovato, il promesso riscatto dei liberali si trasformava in frustrazione. Non si può dire che la battaglia culturale sia stata persa. Il problema è che non è mai iniziata. Una sinistra mai così a corto di idee ha potuto così sopravvivere e capitalizzare, se non in parlamento certamente nella società, il vuoto esistenziale di un liberalismo fantasma. Le masse tornano contente all'ovile dello stato-chioccia (quando va bene) o dello stato-feticcio (quando va meno bene). Sembrava non aspettassero altro: far la fila per essere ammesse alla procedura fallimentare. Si va a fondo, ma tutti insieme e la responsabilità sarà del capitano. Solo la cornice traballante dello stato di diritto e la forma sempre più irregolare della liberaldemocrazia ci salvano da esiti peggiori.

25 ene 2012

Maestri e secchioni. Dall'inchino d'ordinanza ai Sofri non ci si salva più. Non passa giorno in cui un'idiozia del Luca, una cronaca-pistolotto dell'Adriano e adesso perfino una rentrée della dama non vengano celebrati dall'italico web in pompa magna. E' diventato un dazio da pagare se vuoi leggere i blog nel belpaese. Mai visto un gruppo di aspiranti opinion-makers così appiattito, conformista e leccapiedi. Ormai non si scrive più per farsi capire, ma solo per farsi notare. Sono buoni solo gli inizi, quando si è liberi da condizionamenti sociali. Poi, appena raggiunto un briciolo di notorietà, è tutto un correre a farsi aprire le porte del salotto buono, dove non entri se non ti raccomanda il figlio di a suon di links. Fenomeno professionale a sinistra ma non esclusivo di quella parte della blogosfera. Basti pensare al curioso destino di TocqueVille, nata per costituire l'avanguardia pensante del centrodestra, trasformatasi da subito nel classico aggregatore di massa e convertitasi nella piattaforma di lancio dei soliti quattro amici, un modo come un altro per far scrivere chi ci sta simpatico e per lasciar fuori tutti gli altri. Mentre altrove i bloggers danno l'assalto alle redazioni, trasformano le campagne dei politici e fondano testate giornalistiche, qui è tutto un citarsi addosso, un richiamare l'attenzione del re taumaturgo, uno stilare classifiche dei direttori nella speranza che ci tocchi la prossima nomination.
Ma torniamo alla dinastia Sofri, un fenomeno che più italiano non si può (altro che Schettino e De Falco). Se i coniugi sono fenomeni passeggeri assurti a pubblica notorietà - ognuno nel proprio ambito di incompetenza - per la banalità del paesaggio che li (ci) avvolge, la faccenda si fa seria quando si parla di Sofri quello anziano. In libertà da pochi giorni fa al termine di una sentenza che probabilmente non avrebbe dovuto mai scontare (e su questo certamente non è il caso di ironizzare), è stato anch'egli immediatamente intronizzato da agiografi ed entusiasti alla categoria di maestro, filosofo e pensatore di riferimento. Scrive complicato Sofri, almeno per me. Per esempio, del suo libro su Pinelli non sono riuscito a venire a capo. Ma questo è un problema mio. Problema di tutti è invece un paese che non va in bagno senza che qualcuno l'accompagni, che non respira senza una guida spirituale che gli sollevi le braccia, che non esiste senza capipopolo, siano essi ufficiali di navigazione, direttori 2.0 o ex lottatori continuisti.
Per me la questione Sofri si chiude con questa lettera al Foglio di tre anni fa. Ne ho già scritto: al di là della definizione giuridica, pur importante, il problema sta nei contenuti, nelle rivendicazioni, nelle giustificazioni, nelle equiparazioni. Insomma nell'ideologia. Le sentenze (anche quelle probabilmente ingiuste) hanno una data di scadenza, le idee sbagliate purtroppo no. Soprattutto se chi le ha professate, con conseguenze politiche e sociali anche gravi, non è disposto a riconoscerne - nemmeno a quarant'anni di distanza - tutto il potenziale criminogeno. Qui le scuse non le deve solo lo stato a Sofri, ma anche Sofri al resto della società. Ovvero a quelle persone che mentre lui predicava la lotta di classe con mezzi quantomeno discutibili, mandavano avanti il paese senza colpo ferire, e soprattutto senza rivendicare nulla se non la dignità della propria esistenza e del proprio lavoro. Per questo di maestri come Sofri l'Italia non solo può ma deve fare a meno, se vuole diventare grande. Gli ex impiegati della violenza, alllergici come sono alle professioni di umiltà, potrebbero almeno limitarsi a un decoroso silenzio. La loro conversione alle regole della dialettica democratica (di cui è lecito dubitare nonostante montagne di articoli e innumerevoli citazioni nei salotti buoni, anzi proprio per questo) non vale a renderli migliori di chi nella democrazia ha sempre creduto, anche quando i compagni che sbagliavano preferivano la P38. Ognuno si sceglie i modelli che può. Ma sono convinto che di certi esempi di coerenza e moralità possiamo fare tranquillamente a meno, sia come individui che come società. Insomma, ditino alzato a più non posso, ché natura chiama. Ma a casa vostra.

21 ene 2012

Vi vogliono cadaveri. Suicidarsi per fame a Cuba è un gesto senza senso. Mi dispiace per chi si toglie la vita pensando di ricavarne qualcosa per quelli che restano, ma non è un atto eroico. Perché è inutile. Un simile sacrificio potrebbe valere (forse) la pena se riuscisse ad incrinare le certezze del potere e se il mondo avesse occhi per guardare. Ma la dittatura cubana è una bestia feroce, e i suoi agnellini li vuole già disossati per il banchetto. Perché togliere ai Castro la responsabilità di premere il grilletto? Perché consegnarsi ai propri carnefici senza lottare? Il mondo poi è troppo impegnato a lodare le riforme del fratello n. 2 e a piangere per i terroristi di Guantanamo, per occuparsi di quel che succede nel resto dell'isola, dove le carceri vere si svuotano a colpi di arresti cardiaci e polmoniti. Suicidarsi per fame è il delirio estremo della rassegnazione, è la bandiera bianca della resa, è la vittoria degli squadroni della morte del socialismo reale tropicale. Vi vogliono cadaveri, brindano sulle vostre tombe, ci vuole tanto a capirlo?

17 ene 2012

Comunisti dentro. Niente da fare, puoi infiocchettarti, imbellettarti e nasconderti per anni. Poi un giorno decidi di fare il simpatico e ti esce una cosa così: "Dannati comunisti, hanno distrutto il comunismo". E non fa mica ridere, no, no.
(Grazie a Ennio).

13 ene 2012

L'amnistia è un venticello. Resto scettico sulle reali intenzioni del governo, ma con la liberazione di prigionieri politici di primo piano - tra cui diversi esponenti della Generazione 88 e importanti leaders della protesta del 2007 - la Birmania oggi, per la prima volta da molto tempo, è un angolo della terra un po' meno oscuro.

12 ene 2012

Sarà certamente colpa del neoliberalismo. C'è una sola riflessione possibile sulla vergognosa (per noi) bocciatura dell'Italia nell'ultimo Index of Economic Freedom: per salvare lo stato, si affonda il paese.
Myanmar, Burma e altre confusioni. Bertil Lintner, in questa lettera al Financial Times, aiuta a sfatare alcuni falsi miti sul nome della Birmania e dimostra che affidarsi al politicamente corretto è, quasi sempre, la scelta sbagliata.

6 ene 2012

Digressioni. Poi, a un certo punto, Tolstoj decide che si annoia e cambia tema. E, lasciati Natasha e i suoi bambini, si getta con tutto il peso sulle forze che muovono i popoli e la genesi del potere nella storia. E sembra normale.